Inizio, rassicurando i miei compagni di servizio dicendo che NON sarete obbligati a pubblicare anche voi il vostro terzo post.. tanto per ora vige ancora la regola (implicita) che Stefano e Fabio non hanno ancora pubblicato il secondo, perciò.. !
Solo che io sono appena tornata da qualche giorno di mare e, si capisce, che andare al mare a inizio giugno significa passare le giornate a conversare con i 'vecchi' sotto l'ombrellone e a cantare Batti batti le manine ai bambini della spiaggia.. per cui, tra una discussione di politica (l'unica che io ritenga vera) con agguerriti pensionati e una ninnananna per far addormentare le bimbe più belle del mondo, ho trovato finalmente il tempo per fermarmi e pensare un po'.
In questi mesi non avevo avuto molte occasioni per farlo perché tanti eventi si sono semplicemente susseguiti senza sosta.. nell'ordine, ho lasciato prima i miei libri di filosofia, poi i disegni colorati dei bambini con cui lavoravo e infine una metà del mio cuore. Anche se, niente di tutto ciò è stato lasciato per sempre..
Lasciare, per che cosa?
Per andare tutti i giorni in Caritas ad ascoltare storie 'assurde'.
Questa, d'impatto, potrebbe essere la mia prima risposta. Storie che sono 'assurde' perché mi sembra assurdo che una persona venga licenziata dall'oggi al domani e, dopo due o tre anni, non sia ancora riuscita a trovare un nuovo impiego. Oppure mi sembra 'assurdo' che la maggior parte delle famiglie straniere riescano a vivere, in Italia con tre o quattro figli, con soli 400 euro al mese.
Situazioni, queste, che per me sono diventate 'ordinarie' nel senso che tutti i giorni faccio i conti con una povertà concreta, fatta di famiglie che non possono più pagare gli affitti e ricevono sfratti esecutivi, di coppie costrette a lasciarsi perché quando mancano i soldi per comprare il pane o per mettere la benzina nella macchina diventa davvero difficile non incolparsi a vicenda e continuare ad amarsi.
Una povertà fatta di bambini che non possono fermarsi alla mensa della scuola o che, con l'arrivo dell'estate non potranno andare al grest perché spesso l'unico stipendio rimasto in famiglia è quello delle mamme che fanno le pulizie in qualche ufficio alla mattina. Povertà fatta di genitori che ammettono di non aver acceso i riscaldamenti durante l'inverno perché costava troppo, o di uomini italiani che piangono perché dicono di vergognarsi di essere arrivati a bussare alla nostra porta.
Tutte situazioni, queste, che stanno condizionando la mia vita.
Perché quando penso alla fame nel mondo non penso più a situazioni lontane, ma ho in mente i volti dei tanti uomini che, ogni giorno, si mettono in fila per entrare alla mensa di San Nicolò.. a un passo dalla Basilica.. a un passo dai negozi del centro.
Più volte mi sono chiesta: e io, lo farei? Io, mi metterei in fila nella centralissima Lecco, con tutta quella gente che mi passa affianco e mi guarda?
E spesso penso: Ma no, impossibile, a me non succederebbe di finire così.. ma poi ripenso a chi sono i poveri che incontro e sono costretta ad ammettere che povero non è chi decide di vivere in strada perché non sa stare alle regole della società, come spesso sono stata abituata a pensare. Povero è anche quel signore di cui spesso, quando vado nelle scuole racconto la storia.
Un cinquantenne, come poteva essere mio papà, che aveva costruito una piccola impresa edile; tutto andava bene, i soldi c'erano, tanto da indurlo a comprare una nuova macchina. Poi la crisi. I clienti che iniziano a non pagare; lui che si fida e conclude i lavori pur andando in perdita e alla fine la decisione di dichiarare la sua azienda in fallimento.
Una storia che mi aveva impressionato e che credo porterò sempre con me, per il suo essere così 'comune' e così lineare nell'arrivare alla povertà. Non c'entrano dipendenze, scelte irrazionali, situazioni debitorie pregresse. Tutte condizioni, queste, che sicuramente ritrovo in molte altre storie che sento ma che rendono il tutto più complesso, più sfumato, e non così sfacciatamente semplice e comprensibile.
Di fronte a tutte queste storie spesso mi chiedo come posso stare e in che modo posso rispondere alle richieste, talvolta urlate e disperate e altre volte solo sussurrate..
Come posso io, con i miei 'soli' 25 anni stare di fronte a un uomo che mi dice di non avere più nemmeno il pane per i suoi figli?
È una domanda forte, a cui non so ancora esattamente cosa rispondere.
Per ora, mi viene in mente solo una poesia, o una preghiera per chi è credente, di don Tonino Bello, intitolata Ti auguro un'oasi di pace:
E il pianto che spunta
sui vostri occhi
sia solo pianto di felicità.
E qualora dovesse trattarsi
di lacrime di amarezza e di dolore,
ci sia sempre qualcuno
pronto ad asciugarvele.
Il sole entri a brillare
prepotentemente nella vostra casa,
a portare tanta luce,
tanta speranza e tanto calore.
Ripenso alle tante lacrime già incontrate e che, con l'aiuto di chi ascolta con me, ho cercato di raccogliere. E allora mi rispondo, pur consapevole del limite di tale risposta che, per ora, io, Irene, non posso fare molto altro, se non cercare di essere un'oasi felice per chi si rivolge a me e agli altri volontari. Un'oasi di pace, in cui tentare, anche solo per un momento, di ritrovare calore, speranza, luce.
E, forse, non c'è metafora migliore per spiegare che cos'è la vita e quanto è complessa.. l'oasi è assolutamente inaspettata, e allo stesso tempo è ciò che più desideriamo quando attraversiamo i nostri deserti. L'oasi ti fa capire che c'è una grande dose di imprevedibilità nella vita, perché, come può esserci dell'acqua proprio lì dove tutto sembra morto?
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