venerdì 30 maggio 2014

Cambiare il mondo...si può?

"Se accettiamo il nostro compito di essere gli esseri illuminati del nostro pianeta, possiamo iniziare a cambiare il mondo. Realisticamente, penso che i cambiamenti avverrano lentamente, quando cominceremo a praticare atti di gentilezza ogni giorno, compiendo piccoli gesti per contribuire a rendere altre persone più felici. Forse la risposta è offrirsi spontaneamente per aiutare i meno fortunati, fare una cosa semplice come essere gentili e premurosi con qualcuno, senza chiedere o aspettarsi nulla in cambio".
cit. Brian Weiss in "Messaggi dai Maestri".

Cambiare il mondo...un'idea piuttosto ambiziosa ai tempi nostri.
Ho attraversato varie fasi di riflessione in merito a questo quesito, alcune contrastanti tra loro.
Quando ero piccola pensavo che si potesse cambiare davvero il mondo, il mondo di tutti. Un pò come ci insegnavano alcuni cartoni animati, in cui il Bene vince sempre sul male. Bei tempi, quelli.

Qualche anno fa, piena di buoni propositi e armata di una profonda volontà di fare del bene e di un'invidiabile ingenuità, partii per l'Africa.
A dire la verità non so bene neanche io perchè partii e avrei difficoltà a tradurre a parole le mie intenzioni. Volevo aiutare, fare qualcosa. Dopo pochi mesi in Tanzania iniziai a pensare che forse ero una povera ingenua. Quasi mi arrabbiai con me stessa, dandomi della stupida.
Cosa pensavo di fare? Cosa avrei mai potuto fare?
Iniziai ad elaborare riflessioni completamente contrarie a quelle con cui ero partita. Iniziai a pensare che, forse, io non ero nessuno per cambiare il mondo, il mondo di tutti.
La fame, la povertà, le guerre, le malattie, le ingiustizie. Chi ero io per porre fine a tutto questo?!

Il mio primo giorno in Tanzania fui ospite di una cara famiglia Swahili. Da buona Europea, limitata a determinate realtà, non ero mai stata ospite di una famiglia Africana, in Africa.
Arrivai in un territorio pieno di palme, meravigliosamente spoglio di ogni segno di urbanizzazione.
La "mama" mi accolse a braccia aperte e, con un dolcissimo "Karibu", il nostro "Benvenuto", mi porse un piccolo sgabellino di legno per farmi accomodare. Ci sedemmo sotto le palme.
Lei era alta, magra, molto magra, apparentemente stanca, con un sorriso bellissimo e gli occhi pieni di Vita. Parlavamo della difficoltà che ha incontrato per mantenere i suoi cinque bimbi  e delle problematiche del territorio. Parlando capii che non aveva acqua corrente e luce come gran parte delle famiglia africane ma, inizialmente, quei racconti mi sbalordirono.
Capii che non aveva una casa, o almeno una casa come la intendevo io.
Viveva sotto quelle palme. Aveva solo una piccolissima capanna di fango e paglia, che mi mostrò come se avesse la casa più bella del mondo. Ed effettivamente lo era.
Era piena di Amore, Dignità e Umanità quella casa, spoglia di qualsiasi altro bene materiale.
I suoi bimbi dormivano per terra. Non avevano un letto, nè tantomeno una zanzariera sul letto, di fondamentale importanza in quella zona paludosa per difendersi dalla malaria. Gli unici vestiti che avevano sembravano fossero quelli che indossavano, già consumati dal sole e dal tempo.


Mi raccontò che sua sorella era morta la settimana prima con il suo bimbo appena nato, a causa dell'incapacità dei medici locali di affrontare le complicanze legate al parto. Rimasi colpita perchè lo raccontò come se fosse... "normale", in Africa.
Parlammo del suo mal di schiena, anche questo normale, dal momento che ogni giorno sotto il sole cocente percorreva circa otto km tra andata e ritorno per riempire i suoi secchi d'acqua, caricandoli sulla testa come tutte le donne Africane, con un eleganza ed una semplicità che non avevo mai visto prima.

Io ero totalmente nuova a quelle realtà. Forse la conoscevo per sentito dire, qualche idea nella mia testa c'era, ma ritrovarcisi era davvero un altro paio di maniche.
Era il mio primo giorno in Africa.
Ascoltai quelle parole e quegli occhi con grande sentimento di impotenza.
Feci molta fatica a trattenere le lacrime e a maggior ragione quando, congedandomi, sparì per due minuti chiedendomi di aspettarla.  "Un regalo per te" mi disse, porgendomi una magnifica noce di cocco e dell'olio tratto dalle sue palme.
"Come vedi non mi manca nulla qui! La tua visita è stata un regalo bellissimo".
Mi abbracciò e mi chiese di andarla a trovare di nuovo.
Sforzandomi di capire, mi chiesi come fosse possibile che una donna già così povera si privasse di quel poco che aveva per darlo ad una sconosciuta.

Frastornata da episodi simili, tornai in Italia dopo sette settimane in un vortice di domande e senso di impotenza.
Morte, vita, sorrisi, pianti, tristezza, serenità, rabbia, tranquillità, disumanità, fratellanza.
L'Africa, una terra meravigliosa, dai mille contrasti che mi schiaffeggiò e accarezzò, contemporaneamente.
Cosa pensavo di fare? Di salvare chi incontravo? Da cosa?
Tornai a casa con la sensazione di aver dato niente e di aver ricevuto molto, la classica sensazione del volontario. E con la percezione che forse ero io quella che doveva essere salvata.
Assistii a realtà meravigliose e tremende allo stesso tempo.
Vidi bimbi in fin di vita,  malattie, fame, rabbia.
Vidi anche i sorrisi più sinceri e le anime più belle e  pure che io avessi mai incontrato.
Ero grata alla Vita per ciò che avevo ricevuto, per il Volto di Umanità e Fratellanza che mi avvolse come in un abbraccio materno.
Allo stesso tempo ero però molto arrabbiata, indignata per il volto triste che quella Terra mi aveva mostrato.
Inizialmente prevalse quasi il senso di frustrazione, di impossibilità.
Cambiare il mondo, chi, io? Ero quasi certa che avrei dovuto accantonare tutti i miei buoni propositi, che forse io non potevo fare proprio un bel niente.
Andai e tornai in Italia per diverse volte dalla Tanzania e dal Kenya, ricevendo importanti lezioni di Vita ed elaborando alcune riflessioni che mi accompagnano la sera prima di addormentarmi.

Non è importante fare grandi cose per "cambiare il mondo".
Da soli non possiamo certamente scatenare un cambiamento universale, magari fosse possibile!
Probabilmente le guerre, le ingiustizie ci saranno sempre. Ma questo non vuol dire che non siamo in grado di creare un mondo migliore.

Nessuno da solo può cambiare il mondo, quello di tutti. Ma forse è possibile cambiare il mondo delle persone che incontriamo e che interagiscono con noi. E questo lo vedo ogni giorno del Servizio Civile, presso il Servizio Accoglienza Immigrati.
I semplici gesti di bontà quotidiana, per qualcuno possono significare molto, anzi tutto.
Non sono necessarie azioni dispendiose, complesse, materiali.
Basta un sorriso, un complimento spontaneo, un aiuto a qualcuno che ne ha bisogno.
A volte una parole gentile è sufficiente, così come un gesto dolce, una gioia condivisa, una mano che aiuta.
Credo sia così che, poco alla volta, la nostra società potrà cambiare.
Il magnifico Dottor Brian Weiss di cui ho letto alcuni libri e che consiglio vivamente, sostiene che in questo modo "le persone si sentirebbero nutrite dai gesti attenti degli altri e gli atteggiamenti di paura e di difesa dovuti all'insicurezza comincerebbero a dissolversi al calore della gentilezza". cit.

Credo sia importante avvicinarsi a chi non conosciamo. Se riservassimo azioni benevole solo a chi conosciamo, la società non avrebbe modo di cambiare, di evolversi.
Se ognuno di noi compisse anche solo pochi gesti buoni ogni giorno, forse allora sì, potremmo cambiare il mondo. Almeno potrebbe essere un buon inizio.
Credo sia importante tenere sullo sfondo della nostre azioni l'idea che siamo tutti fatti della stessa essenza, ognuno di noi cerca di ottenere un po' di pace, un po di Amore e di sicurezza nella vita di ogni giorno.

Oggi, realizzo che è questo il prezioso insegnamento che ho ricevuto il mio primo giorno in Africa da quella splendida donna.
La persona "povera" non era lei. Ero io.
E il mondo si può cambiare davvero. Lei, il mio, l'ha cambiato... e ognuno di noi può fare altrettanto.

mercoledì 28 maggio 2014

Tutti quei piccoli, che sono più grandi dei grandi

C'è una signora del Marocco che, puntualmente, arriva al Centro di Ascolto accompagnata da uno dei suoi tre figli. Un ragazzino di nove anni appena, che la segue fedele per farle da traduttore. Fin dalla primissima volta che li ho incontrati ho provato simpatia per quegli occhioni neri e timidi e per quel filo sottile di voce che traduceva sibilando le parole e le richieste della mamma.
Il ragazzino in questione, però, mi è stato fin da subito simpatico anche perchè era ogni volta costretto a ripetere almeno cinque volte il suo nome straniero: la prima volta sussurrandolo appena ma alla quinta volta urlandolo letteralmente alle simpatiche sessantenni volontarie del Centro di Ascolto che, puntualmente commentavano con frasi tipo Ah che bello, non perchè l'avessero capito davvero, ma solo perchè intimorite da quell'inedito e inaspettato tono di voce.
(Bambino timido costretto ad urlare!)

Ogni volta uno strazio per me, che empaticamente, mi riconosco in questa timidezza e nel suo filo sottile di voce. Per questo, l'ultima volta che gli occhioni neri sono venuti a trovarci al CdA, avevo deciso di scrivermi a caratteri cubitali il nome del ragazzino sulla scheda della mamma, sperando di evitargli (e di evitarmi) l'imbarazzo del ripetersi della scena.

Oggi, quando il velo della mamma ha fatto capolino dietro la porta e si è accomodato davanti a me, ho subito guardato se era accompagnato, come sempre, dagli occhi neri del figlio e, riconosciutili dietro un nuovo paio di occhiali da vista, ho cercato in fretta la scheda della mamma, sono andata a cercare la mia scritta a caratteri cubitali e, con tono deciso e felice ho detto: 'Ma che begli occhiali nuovi che hai oggi MORAD!!!'
Lo sguardo complice e soddisfatto che noi, timidi, ci siamo scambiati, è stato carico di tante espressioni che i 'timidi' spesso non dicono con le parole usate da chi parla sempre a voce troppo alta. 

Mi piace raccontarlo così, attraverso gli occhi di Morad e dei tanti bambini che incontro, il ‘mio’ servizio civile.

Attraverso lo sguardo dei più piccoli che accompagnano mano nella mano i grandi, spesso più ‘ingenui’, intimoriti e intimiditi perché ancora inesperti di una lingua così diversa da quelle con cui per anni hanno parlato di sé. I grandi che si ‘appoggiano’ ai più piccoli, e si affidano a loro, alle loro traduzioni fatte di parole semplici e grandi sguardi. I grandi che sembrano avere più paura dei piccoli e i piccoli che finiscono col rassicurare questi grandi ancora inesperti di un mondo (o forse solo di un paese) che conoscono appena. 



I bambini, che conoscono già le lacrime, le fatiche, le angosce, ma che sanno come superarle.
Come S. e M., due fratellini che vivono in una situazione economica fortemente compromessa e che un giorno sono arrivati con la loro mamma. Lei, nel raccontare tutte le fatiche che ogni giorno la tormentano, è scoppiata in lacrime, lasciandoci senza parole e quasi senza fiato. Come possiamo aiutarla, mi domandavo. Poi ecco. Il suo bambino più grande l’ha coinvolta in un gioco che stava facendo con il fratellino e il sorriso è ritornato.

Mi piace parlare di loro, di tutti questi bambini che accompagnano i loro genitori al Centro di Ascolto, ovvero nelle fatiche e nelle lotte quotidiane per vivere dignitosamente.

Ce ne sarebbero, però, tanti altri. Tutti quei bambini che vivono con nonni, parenti, amici, in qualche stato dell’Africa o dell’America Latina, o dell’Est Europa, lontano dai loro genitori.
Ecco, di loro, per ora, mi fa ancora troppo male parlare.

martedì 27 maggio 2014

Fiume di parole: una nuova rete sociale

Le lezioni del Gruppo Mamma - che tengo due volte alla settimana con quattro signore - sono sempre un'occasione dove le apprendenti portano pezzi della loro vita. Mi sento molto onorata che abbiano aperto una finestra sulle loro storie in soli pochi mesi di servizio, mettendomi a parte delle loro confidenze.

Fin dalle prime lezioni, mi sono accorta della loro necessità di avere uno spazio in cui parlare e confrontarsi.
A volte però, la conversazione diventa un fiume in pienza difficile da arginare che sconvolge la pianificazione della lezione. Quindi per cercare di sfruttare al meglio questa loro "voglia", inserendola nella mia programmazione, ho pensato di strutturare le unità didattiche in base ad argomenti che possano stuzzicare il loro interesse come l'alimentazione o la casa.
In questo modo riusciamo a lavorare sul lessico e sulla struttura grammaticale e, poi, possiamo dedicare l'ultima parte alla produzione orale.

Le mamme non solo raccontano se stesse (cosa ho fatto nel fine settimana; la mia bambina ha la febbre; sono andata al parco), ma danno consigli l'una all'altra (dai il ciuccio alla bambina così non si sveglia; perchè non la tieni vicino a te nel letto così non ti devi alzare; chiedi a tuo marito il tuo indirizzo di casa e il PIN della carta).

Si respira insomma un clima di grande complicità che permette alle signore di ricostruire la rete sociale lasciata nel paese d'origine. In questa rete possono trovare persone con cui confidarsi e che le spronano verso il processo di inclusione sociale e che permettono loro, allo stesso tempo, di ritrovare le loro radici culturali.

lunedì 26 maggio 2014

La giusta distanza

Il mio ultimo (ma non il primo di sicuro! perché ormai siamo ben lungi dalla grande esaltazione iniziale da “faccio il lavoro più bello del mondo!” ed era ovvio e normale che non rimanesse tale per 12 mesi di fila senza neanche un piccolo cedimento, no?) argomento di riflessione preferito è, appunto, la “giusta distanza” che dovrei interporre fra me e i ragazzi.

Il fatto è che sono rimasta scottata quando mi sono presa a cuore la questione della scuola di W, un affare tanto personale e quotidiano quanto se vogliamo banale, però la vita a Casa Onesimo è fatta delle piccolezze e delle banalità di ogni altra casa (per non dire “famiglia” – che secondo me qui non è proprio la parola giusta da usare) ed è giusto e bello così. Ho cercato di fare in modo che le ottime capacità linguistiche di W potessero sfociare in qualcosa di utile dal punto di vista scolastico e quando si è presentata l’occasione di fargli frequentare le 150 ore della scuola media mi sono posta in prima linea perché il professore responsabile lo conoscesse, perché potesse avere molte ore extra di italiano (preparate sia da me che dall’altro maestro d’italiano di Casa Onesimo) e perché potesse avere una bicicletta con la quale andare a scuola. Mi sono presa la responsabilità di fare in modo che non fallisse. E che cos’è successo? Che W per primo mi ha chiaramente aperto gli occhi dimostrandomi una totale mancanza di fiducia nei miei confronti, sia come maestra che come essere umano. E allora? E allora va bene così, ogni utente/ragazzo/persona è fatto a modo suo e io non salverò l’umanità da tutti i suoi mali con le mie 30 ore a Casa Onesimo. Sono stata scelta perché ho le qualità e le capacità per insegnare italiano? Insegnerò italiano e basta. Del resto è per questo motivo che questo Servizio Civile mi esaltava così tanto, no? Tutte le velleità da educatrice, operatrice sociale e salvatrice del mondo sono venute dopo…

E quindi è ciò che faccio: l’insegnante di italiano a tempo pieno, 2 ore la mattina e 2 ore al pomeriggio. È quello che so fare meglio ed è quindi ciò che di meglio posso fare per aiutarli…no? Ma quanto è giusto che io vada a Casa Onesimo tutti i giorni solo per fare l’insegnante di italiano L2? Quante occasioni sto sprecando nel non avvicinarmi di più, se non a tutti, ma almeno ad alcuni di loro? Non sarebbe cosa buona e giusta ascoltarli, farli raccontare, farli sfogare, farli aprire? Aiutarli di più? Eppure.

Il fatto è che “la privacy va preservata” (a detta della nostra assistente sociale e a detta anche mia, dopo aver fatto la non troppo positiva esperienza di aver dato il mio numero di telefono a un ragazzo di Casa Onesimo) e quindi è meglio non parlare troppo di noi, della nostra famiglia, di dove abitiamo, delle nostre relazioni. E come faccio a far parlare degli altri se non posso io per prima parlare di me? E come faccio a essere io? Eppure. Eppure, mi trovo lì con il mio corpo e la mia anima e non possiamo dire altro che sia proprio io – e non potrei essere altrimenti. Sono io, nel mio ruolo, che mi impedisce di mostrare tutte le mie sfaccettature allo stato libero e grezzo, ma sono io che mi gioco in questo ruolo, io decido come muovere i passi e ci sarà sempre la mia impronta. Quindi  sono sempre una gran chiacchierona e rido sempre sguaiatamente e parlo a voce alta e faccio battute cretine, a prescindere da ciò che posso o non posso apertamente dire di me stessa. Dunque la mia riflessione finale è che, evidentemente, il posto che mi sono ritagliata io a Casa Onesimo è quello da insegnante e da clown e va bene così. E ci sono altre persone che, in base alle loro attitudini e capacità, si sono ritagliate altri posti e hanno altri ruoli. E va davvero bene così.

domenica 25 maggio 2014

Cosa fare quando non si sa cosa fare


Nuovo Servizio, nuovi Responsabili e nuovi colleghi.
Iniziare il Servizio Civile non è esattamente facile come si potrebbe pensare.
Il Centro SPRAR di Caronno Pertusella è un Servizio vivo e... caotico.
Da una parte gli operatori: quelli che restano,quelli che se ne vanno e altri ancora che vanno in maternità!
Dall'altra parte gli utenti, i nostri rifugiati politici, con tutte le loro esigenze, i loro malesseri ma anche la loro gioia di vivere.
In mezzo io e Manou.

<< Ragazze, voi dovete fare lezione di italiano e lezioni di doposcuola!>>
<<Ok>> rispondiamo obbedienti. In fondo lo sapevamo già perchè avevamo incontrato la nostra Responsabile prima dell'inizio del Servizio.
Si ma...più facile a dirsi che a farsi!
Infatti fare "lezioni" vuol dire entrare in contatto con persone specifiche, con la loro personalità e le loro idee.
Vuol dire interrompere la lezione perchè la donna a cui stai spiegando le vocali ti confida qualcosa, oppure perchè i ragazzi del doposcuola vogliono raccontarti la gita scolastica dell'altro giorno.
Vuol dire entrare in contatto con tanti mondi diversi, con una storia che precede il nostro arrivo.
<< Ora facciamo formazione ragazze!>>
<< Vero, abbiamo fissato un accompagnamento da fare all'ospedale di Bollate... ci vai per favore?>>
Fare lezioni vuol dire anche doverle saltare per far fronte a tutti questi tipi di impegni.

Ovviamente all'inizio non era facile gestire tutta questa "flessibilità" di ruolo.
Io non sapevo bene cosa dovevo fare!!! Ero confusa, talvolta demotivata perchè non riuscivo a vedere continuità nel mio lavoro.
Poi mi sono confrontata con la Responsabile e i colleghi circa il mio ruolo nel Centro e solo allora mi sono resa conto che sono chiamata a fare tutto ciò che c'è da fare e che mi sento di fare!
Consolante!!!
La mia organizzazione mentale ( impegni quotidiani scritti in agenda) alla fine non coincide alla perfezione con quella pratica ( impegni quotidiani effettivamente presi anche se non scritti in agenda!).

In questi quattro mesi di Servizio Civile mi sono perciò dovuta ri-organizzare con la realtà del Servizio, ho dovuto sperimentare nella pratica cosa significa lavorare nel sociale e avere mille impegni imprevisti!
Imparare facendo non è una cosa semplice infatti, nel momento di dover prestare il mio Servizio,  più volte mi sono chiesta: cosa devo fare visto che non so assolutamente cosa fare?!
Non è facile darsi una risposta, ma io ho seguito 4 semplici comportamenti: 
1- Fare un bel respiro
2- Ragionare in modo "neutro" sul problema/Servizio da risolvere/prestare
3- Confrontarsi sempre con i colleghi e la Responsabile
4- Trarre le conclusioni e... buttarsi nella mischiaaa!!!!
Ah, quasi dimenticavo!!!
E' anche necessario, quando si arriva a casa, addentare un bel pezzo di cioccolato fondente e rilassarsi sul divano....un ottimo utilizzo del tempo quando non si sa cosa fare ;)

sabato 24 maggio 2014

Servizio Civile? Bello! Ma Cosa Fai?



Sono sempre un po’ in difficoltà con chi mi chiede di spiegare in cosa consiste il mio lavoro; è vero, forse “lavoro” non è il termine corretto, sono “una giovane in Servizio Civile Nazionale” ma poi bisogna concretizzare e raccontare (o almeno provare) l’impegno di tutti i giorni.

Vediamo, mediatrice culturale? Forse non proprio, o almeno non sempre; educatrice? No, non è la mia qualifica e poi faccio fatica ad immaginarmi in questo ruolo, anche perché mi confronto sempre con adulti e non mi sento di “educare” nessuno; operatrice? È un termine che ricorre nel mio servizio però non mi convince ancora del tutto ….

E  allora parte la spiegazione delle azioni concrete di ogni giorno, i giri in Questura (con i relativi mal di testa), ai vari sportelli per tutti i documenti necessari alla vita in Italia, l’accompagnamento al supermercato con annessa lezione di italiano (attento! Dove vedi scritto “suino” significa che c’è il maiale, forse i wurstel è meglio non comprarli …), l’archivio da riordinare e le ricerche su internet per trovare incastri con gli orari dei mezzi pubblici o un corso di formazione che possa soddisfare i desideri di un ospite. E poi ogni mattina è una sorpresa e non sai quale sarà l’avvenimento della giornata.

È vero anche che le cose non sono sempre facili; arriva il momento in cui partecipi alla ricostruzione della storia personale in vista dell’audizione alla Commissione che deciderà sulla permanenza in Italia …  e tu che conosci il francese e fai la parte dell’interprete ti trovi a dover tradurre cose che non avresti mai voluto dire; i momenti in cui devi dire dei no che ti pesano, perché non vorresti farlo ma il sistema o le risorse a disposizione non ti permettono nulla di diverso; l’avvicinarsi della scadenza di un’accoglienza che sarà difficile, perché il tempo per progettarsi una vita non sempre basta; ma anche le piccole cose… insomma, basta lasciare luci e tv accese, i turni delle pulizie non sono appesi solo per decorare la bacheca. Piccole cose che ti richiamano ad un dovere che ogni tanto fai fatica a svolgere, soprattutto perché ti mette di fronte ai tuoi limiti.

ecco la manioca fritta!
Ma non è sempre così: un ospite con cui hai studiato un po’ di teoria della patente, e che ti ha bidonato un sacco di appuntamenti, alla fine dell’ultima lezione ti mette davanti  un piatto con la manioca fritta, gli spinaci e il pesce (e taaaanto peperoncino) alle 10 di mattina; un altro ti stupisce con i grandi progressi con la lingua italiana e un pomeriggio ti ritrovi al bar davanti ad un caffè a festeggiare con le colleghe e gli ospiti di Casa Toure uno di loro che ha ottenuto la patente (non il cuoco provetto … ).
E allora ecco la voglia di pensare a cosa si potrebbe fare, magari un po’ di lavoretti in comunità per renderla più accogliente, una gitarella vicino, giusto per stare un po’ insieme al di là dei ruoli o una bella cena; magari con meno peperoncino.

venerdì 23 maggio 2014

Il mio pane quotidiano

Se dovessi spiegare a qualcuno che cosa significa lavorare in un centro di seconda accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo potrei farlo in molti modi.
Potrei dire, banalmente, che la struttura dove faccio servizio ha una ventina di posti letto, perciò una ventina di ragazzi ospiti per un massimo di dieci mesi ciascuno.
Potrei parlare delle lezioni di lingua italiana, che la mia collega di servizio civile Elena coordina e io aiuto a fare. I ragazzi sono divisi in piccoli gruppi in base al livello linguistico, e ogni giorno per qualche ora facciamo del nostro meglio per prepararli, chi per l’esame di alfabetizzazione, chi per l’esame di terza media.
Potrei descrivere l’iter per l’ottenimento dei documenti, dai permessi di soggiorno ai titoli di viaggio, dai certificati di codice fiscale alle carte di identità: spesso una vera e propria odissea tra ritardi di alcuni rami della pubblica amministrazione, ottusità di certa burocrazia, inimmaginabili imprevisti o anche soltanto banali errori.
Potrei parlare della vita comunitaria, che preferisco chiamare “comune quotidianità”, fatta di qualche chiacchiera con Efrem mentre si beve un caffè, del relax sulla provvidenziale amaca in giardino alla fine della giornata con l’immancabile Kayani, dei pranzi tutti insieme in mensa e delle partite a calcio balilla del dopo pranzo (di cui, ahimè, posso solo essere spettatrice, date le mie scarse doti per qualunque tipo di sport – compresi quelli da tavolo!!!).  
Potrei riferire di alcuni momenti divertenti, dagli scherzi “drammatici” di Sassi il primo aprile, a certe buffissime storpiature dell’italiano di Mekhail (ma non solo), da Iqbal che mi cucina (e insegna a cucinare) degli ottimi pakora pakistani alle foto da “album di famiglia” con Ali.  
Potrei parlare perfino dei momenti difficili, che non sono pochi e sono difficili nel vero senso della parola: le ansie legate ai documenti – incredibili, per noi che magari neanche ci accorgiamo di avere la carta di identità scaduta! -, la profonda amarezza per la mancanza di lavoro e conseguentemente di soldi da mandare alla famiglia di origine dopo anni di assenza, la depressione per l’ennesima giornata vuota in attesa che la Commissione Territoriale si esprima sulla richiesta d’asilo, i racconti di passati davvero troppo tragici per noi nati nella parte “giusta” del mondo.
Non so se quanto detto fin qui renda l’idea di cosa voglia davvero dire lavorare in un centro di accoglienza.
Allora provo a spiegarlo così: lavorare in un centro di accoglienza significa svolgere le proprie attività con una logica esattamente contraria a quella cui siamo abituati. La società ci spinge a rivolgere la nostra attenzione ai soldi, ai beni materiali, all’apparenza e al successo, a preferire la compagnia del ricco a quella del povero, a frequentare i posti “giusti” con la gente “giusta”. Al contrario, il nostro lavoro ci spinge a considerare prima di tutto chi ha maggiori difficoltà, ad avere più cura per chi è più ai margini, a scegliere chi è più debole. Insomma, a ribaltare la scala dei valori su cui basare le nostre scelte di vita. Ecco, qualche secolo fa qualcuno disse “gli ultimi saranno i primi”. Beh, in definitiva è questo il concetto da cui ogni giorno cerchiamo di farci ispirare.

giovedì 22 maggio 2014

Tornando a casa

Piazza Gasparri, Comasina. Nell’aria odore di pioggia, i portici affollati come al solito. Davanti alla sede dell’Associazione Combattenti  Reduci e Simpatizzanti alcuni anziani discutono animatamente mentre dietro la vetrina illuminata una ragazza è indaffarata al bancone a lavare dei bicchieri. L’argomento non è chiaro, ma a giudicare dalle voci che si accavallano infervorate sembra di vitale importanza. A un altro tavolino due egiziani fumano e parlano davanti a una tazzina di caffè. In fretta mi appiattisco contro un pilone del colonnato per far passare due signore che si fanno strada con passeggini spianati lungo la strettoia tra i tavolini e la ringhiera dei lavori in corso per la metropolitana. In piedi, alcuni passanti si sono fermati a osservare e commentare una misteriosa cascata d’acqua che scorre impetuosa dentro la fossa accanto la scavatrice, sotto lo sguardo fermo di un operaio. Sto ancora cercando di capire se il suo sguardo sia fermo perché ha la situazione sotto controllo o se stia assistendo impotente al cedimento di una tubatura quando svolto l’angolo e sono investita da un chiasso festoso. E’ l’ora dell’uscita di scuola e sulla piazzetta antistante l’”ICS Sorelle Agazzi” è una specie di gioioso marasma. Bambini di ogni dimensione si rincorrono sfrenati e ridono come pazzi, mentre i genitori cercano di riacciuffarli. Enumero possibili nazionalità, tirando a indovinare, per gioco. Bambini cinesi, peruviani, pakistani, marocchini, egiziani. Cerco di ipotizzare qualche paese dell’Africa. Molti fra qualche anno saranno italiani. Lo sono già. Mamme vestite in ogni modo, foulard colorati, capelli raccolti a coda, sciolti, lisci, ricci, neri, mesciati. Sulle panchine, in cerchio, le donne discutono e ridono. I bambini giocano sul ponticello con la fontana e sulle aiuole. Fanno merenda e leggono. Alcuni sono così minuti che sembrano quasi più piccoli dei Gormiti stampati sui loro giganteschi zaini. Su una panchina, a destra, due giovani donne cercano di tenere d’occhio i loro bambini e allo stesso tempo di prestare una diplomatica attenzione a qualche discorso che uno dei due vecchi signori seduti sulla panchina a sinistra sta cercando di intavolare con loro al di sopra del vociare, sporgendosi sul suo bastone. Molti ridono. Questo è quello che mi colpisce di più, e mi sembra per un momento una scena irreale, da quanto è bella. E’ come un’esplosione. Come se si componesse già senza sforzo quello che è ancora così spesso oggetto di logoranti discussioni, previsioni e calcoli politici. Poco più in là, sul campo da basket di cemento in mezzo a un cortile tre ragazzi portano a spasso un cane. Uno di loro scoppia in una risata per sottolineare una battuta. Quella risata schietta e un po’ timida di ragazzo che – penso – senti  solo in periferia. Dove mi sembra che la gente sia  troppo consapevole di essere costantemente al centro di quello che realmente succede per convincersi davvero di essere definita “periferia”. Qui le strade di ognuno di noi si incrociano continuamente, alcune dopo aver percorso migliaia di chilometri, altre lunghe in tutto qualche centinaio di metri. Tutte qui, in fondo, per caso. Non sempre la città è tenera con chi la abita, ma adesso il monumentale e inquietante “Supercondominio di piazza Gasparri” sembra cullarci tutti. Piccoli miracoli quotidiani, da queste parti.

Scusate, è la mia prima volta in questura.

Ebbene sì. Che cos'hai da ridacchiare sotto i baffi?!? Ti vedo, sai?!
Non ero mai entrata in questura prima di iniziare la mia esperienza nel Servizio Civile Nazionale. Mai. Succede, no?!?
Ecco, infatti.
Quindi accompagni tu A.A a richiedere il permesso di soggiorno?”
Ma certo. Dove?”
In questura!”
Ahhhhhhh!!!”

Tanto per essere chiari, a Lecco ci sono due questure e altrettante caserme dei Carabinieri. Mi sembra di aver già detto di non essere un'esperta in materia. Ho pensato, “ok, vediamo se indovino.”
E' quella vicino al lago, vero?”
Si si, esatto. Auguri per il parcheggio!”
Eh già, a Lecco è un problema. Ma me la cavo con le quattro frecce. È un dono naturale, il mio.
Bene, arriviamo in questura. Inutile dire che c'era una fila lunghissima di persone da tutto il mondo in attesa del proprio turno che sbrigare le loro pratiche. C'era persino una signora marocchina di mia conoscenza, con cui scambio qualche parola. Alla fine tocca a noi. Il documento non era ancora arrivato. Colpa dell'emergenza sbarchi, ci dicono. Ma ci danno un numero da chiamare per sapere a che punto della procedura siamo. Ottimo risultato, dopo un'ora e mezza di coda, non ci si può lamentare.
Questo è uno dei tanti aneddoti che potrei raccontare a proposito degli uffici pubblici nell'ambito del mio SCN. Ma il punto è un altro. Non posso tediare chi legge con queste storielle. Il punto è che sto imparando un sacco di cose!!!
Ho imparato che ci sono dei tempi tecnici da rispettare per i permessi ai cittadini stranieri, che ci sono degli uffici che si occupano di questo ogni giorno, che per avere le esenzioni sanitarie bisogna seguire delle procedure mooolto complicate, che per ottenere una borsa-lavoro ci si deve rivolgere al Servizio Educativo al Lavoro, dove si trovano dei ragazzi gentilissimi che per prima cosa ti aiutano a scrivere un Curriculum Vitae come si deve.

Quindi alla fine sono loro, gli stranieri, che mi stanno insegnando qualcosa di nuovo. E tutte queste cose nuove sono utilissime, sono i pezzettini di un puzzle che ogni settimana diventa più chiaro. Non posso fare altro che essere soddisfatta di questa opportunità, non avrei mai immaginato di capirci così tanto del nostro sistema!!!



mercoledì 21 maggio 2014

Si comincia da qui

Da un semplice libro al primo anno di università, è nata la curiosità per l’altro, portatore di diversità che  può spaventare e nello stesso tempo può attrarre. E’ un testo che mi piace condividere con chi incontro perché narra una vicenda molto comune e che può essere letta e accolta da grandi e piccoli.
Il protagonista si chiama Enaiatollah Akbari, oggi un ragazzo torinese. 
Conosce un giornalista, Fabio Geda, il quale gli chiede di raccontare la sua storia."Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari" rappresenta una totale apertura di sè che il giovane regala non solo al giornalista Geda ma a tutti i lettori. Enaiatollah inizia con il racconto della mattina quando all'età di dieci anni circa si ritrova da solo in Pakistan dove era stato portato, tra mille difficoltà, dalla madre. Il padre era stato derubato e ucciso da dei banditi e la cosa aveva provocato nei pashtun, i proprietari delle merci che gli erano state rubate, un desiderio di vendetta o meglio di risarcimento per il danno subito: prendere come schiavo un figlio di quell'uomo era un buon risarcimento.
L'etnia hazara è quella a cui appartiene Enaiatollah, disprezzata sia dai talebani che dai pashtun. Solo portandolo fuori dall'Afghanistan, sua madre avrebbe evitato quella fine a suo figlio. Insieme viaggiano per il Pakistan e, dopo una notte insieme, al mattino la madre di Enaiatollah scompare.
La sera prima dell'abbandono, la donna aveva consegnato al figlio tre insegnamenti per la vita: 
"Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat, per nessun motivo. La prima è usare droghe. [...] Promesso. La seconda è usare le armi. Anche se qualcuno farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, insultando Dio, la terra, gli uomini, promettimi che la tua mano non si stringerà mai attorno ad una pistola, a un coltello [...] Promesso. La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno, Enaiat, vero? Sarai ospitale e tollerante con tutti. Promettimi che lo farai. Promesso."
Queste regole, Enaiatollah le rispetterà. Dopo il Pakistan, il giovane raggiunge l'Iran, dove lo aspetta un pesante lavoro in cantiere. Qui inizia a stringere le prime amicizie, inizia la sua vita lavorativa che nello stesso tempo lo incatena al cantiere dal quale non poteva uscire per evitare il rischio di un incontro con la polizia. Per Enaiatollah, i soggiorni in Iran non sono stati molto lunghi: due volte è stato riportato ad Herat, in Afghanistan, vicino al confine iraniano.
"Come si fa a cambiare vita così, Enaiat? Una mattina, un saluto. Lo si fa e basta, Fabio.
Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
E' così. E la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. 
Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre."
Dall'Iran, Enaiat si sposta in Turchia con l'aiuto dei trafficanti di uomini, viaggio difficoltoso, fatto da camminate interminabili, da spostamenti in camion, dove bambini e adulti si nascondono nel doppio fondo del veicolo.
"Sentivo il peso delle pietre sulla nuca e sul collo, il peso dell'aria e della notte sulle pietre, il peso del cielo e delle stelle. Ho cominciato a respirare con il naso, ma respiravo polvere. Ho cominciato a respirare con la bocca, ma avevo male al petto.
Avrei voluto respirare con le orecchie o con i capelli, come le piante, che raccolgono l'umidità in aria, dall'aria. Ma non ero una pianta, non c'era ossigeno."
In Turchia, il giovane e i suoi compagni di viaggio non possono fermarsi, non c'è lavoro. Un'altra avventura, questa volta via mare, li aspetta, quella in Grecia.
Durante quel viaggio, i giovani perdono un compagno, Liaquat. All'arrivo, i giovani vengono arrestati dalla polizia. Trascinati in caserma, dopo urla e pianti, i giovani sono lasciati liberi.
Enaiat dalle mappe dei poliziotti individua il luogo dove si trovano: quasi a Mitilene.
Liberi ma senza documenti, ancora clandestini. I ragazzi vogliono trovare un passaggio per arrivare alla città, per poi imbarcarsi per Atene. Enaiat si oppone, dicendo che avrebbero incontrato di nuovo la polizia e che li avrebbe portati via. Si allontana dal gruppo, lì vicino c'è una pompa di benzina con una cabina telefonica e il ragazzino entra nella cabina per osservare la situazione. 
Poco dopo arriva la polizia: Enaiat non fa in tempo ad uscire ed avvisare i suoi compagni di viaggio che vengono portati via.
Accertatosi che non ci fosse la polizia, il giovane esce e corre, fino ad arrivare ad un cortile che costeggia una casa. Forse per la stanchezza, Enait si addormenta.
Arriva una donna anziana a svegliarlo che abita lì. Si prende cura di lui, lo accompagna alla stazione del pullman, gli fa il biglietto, gli dà dei soldi. Il giovane riesce ad arrivare a Mitilene. 
Compra il biglietto per il traghetto e s'imbarca per Atene: durante questo viaggio incontra Jamal, un ragazzo che aveva conosciuto in Iran.
“Mescolarsi nella folla non è male, quando non sai cosa fare. E nella folla abbiamo sentito parlare afghano. Seguendo la lingua siamo finiti in mezzo a un gruppetto di ragazzini, più o meno della nostra età, alcuni anche più grandi: giocavano a calcio.
Ecco un buon consiglio: se nella vita ti capita di passare del tempo come clandestino, cerca i parchi, si trova sempre qualcosa di buono, nei parchi.”
E' l'estate del 2004 perchè ad Atene, Enaiat e Jamal s'imbattono nelle Olimpiadi: c'è molto lavoro nero e ci sono molti complessi sportivi da terminare. Cominciate le Olimpiadi, il lavoro finisce.
Enaiat vuole partire e lascia il suo amico. Raggiunge Corinto, una sera riesce a nascondersi su una nave. 
Per tre giorni, senza bere né mangiare, rimane nascosto nella pancia della barca.
Enaiat non sa dove sia diretto il mezzo. Quando si ferma al porto e dopo varie peripezie, esce dalla nave, viene visto da qualcuno ma non inseguito.
Scappa. Il primo cartello stradale che incontra ha la scritta “Venezia”. Qui inizia un ulteriore viaggio in Italia alla ricerca di suoi conoscenti. Il giovane vuole recarsi a Roma, non sapendo la distanza da una città all'altra.
“Come si trova un posto per crescere, Enaiat? Come lo si distingue da un altro?
Lo riconosci perchè non ti viene voglia di andare via. Certo, non perchè sia perfetto.
Non esistono posti perfetti. Ma esistono posti dove, per lo meno, nessuno cerca di farti del male.”
Riesce a rintracciare un suo amico, Payam che di primo acchito non crede sia il vero Enaiat al telefono e soprattutto in Italia. Payam dice al giovane di andare a Torino. Da Roma, dove il giovane si era recato e dove sul treno aveva conosciuto un signore gentile, Enait decide di andare a Torino.
Per acquistare il biglietto si fa aiutare da un afghano e sul treno incontra una signora molto gentile che chiama addirittura Payam per farlo venire a prendere alla stazione.
L'amico porta Enaiat all'Ufficio minori per stranieri.
“Ho pensato a quelle due persone, il ragazzo di Venezia e la signora del treno per Torino, che mi erano piaciute tantissimo, entrambe, tanto da desiderare di abitare nello stesso Paese in cui abitavano loro. Se tutti gli italiani sono così, ho pensato, mi sa che questo è un posto in cui potrei anche fermarmi. Ero stanco, a dire il vero. Stanco di essere sempre in viaggio.”
Payam lo porta a stare da un amico ma dopo pochi giorni, l'uomo non vuole più ospitarlo per la paura di avere contatti con la polizia e magari perdere i documenti. Così Payam chiama i Servizi Sociali del Comune, parla con una donna che lo aiuta, Danila.
Non c'è un posto disponibile per Enaiat, così Danila lo prende con sé. Il giovane non vuole, Payam insiste e alla fine il ragazzo cede. Incontra la famiglia che lo accoglie.
“L'unico problema era la lingua, ma quando ho capito che a Danila e Marco faceva piacere sentirmi raccontare la mia storia, ecco che ho cominciato a parlare e a parlare e a parlare, in inglese e in afghano, con la bocca e con le mani, con gli occhi e con gli oggetti. Capiscono o non capiscono? Mi chiedevo. Pazienza, era la risposta. Io parlavo.”
Fino al giorno in cui non si è liberato un posto in comunità. 
Dopo poco tempo Danila chiede ad Enaiatollah se vuole stare da loro, in affido. 
Scuola, lingua, amicizie, famiglia: il giovane inizia la sua seconda vita, non dimenticandosi della sua famiglia d'origine.
La fine del testo è un nuovo inizio per il giovane: Enaiat riesce a fare una telefonata alla madre in Afghanistan.
"In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch'io. Non so bene come. Ma lo ero anch'io.”
Tramite le sue parole si ha modo di entrare in relazione con una sfera altra che nel quotidiano ci dimentichiamo di avere.
Enaiat racconta dieci anni della sua esistenza, in cui ha conosciuto la sofferenza ma anche la gioia di sapersi arrivato.

martedì 20 maggio 2014

A spasso con Lara

Sono Lara Ramazzotti, ho 26 anni e sono l’unica Piemontese del gruppo. Dopo la laurea in Scienze Politiche sono stata all’estero per perfezionare inglese e francese, poi a Oxford per svolgere uno stage nell’ambito dei diritti umani e del diritto d’asilo. Questa è quindi la mia seconda esperienza di lavoro con i rifugiati – e mi auguro non sia l’ultima! 
A parte questo, le cose fondamentali della mia vita sono le persone che amo. Le mie passioni sono i miei tre nipoti, i libri e i viaggi alla scoperta del mondo. Ho molti piccoli pregi e pochi grandi difetti. Credo molto a certe cose e per nulla a certe altre. Soprattutto, non credo che ci vorrebbe molto per rendere il mondo un posto migliore, se ognuno facesse la propria parte; e credo che, se ognuno facesse la propria parte, non solo il mondo sarebbe un posto migliore, ma anche le nostre vite sarebbero più piene. 




Una pagina di diario



Cari colleghi e visitatori del blog,
mi chiamo Manou, ho 27 anni e vivo a Milano. Quando ho bisogno di rilassarmi, mi tuffo in un bel libro. Un’altra passione è viaggiare – il viaggio per conoscere paesaggi, città, culture, costumi, persone, tradizioni culinarie.


Sono laureata in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali. Attraverso le ricerche per la tesi, ho sviluppato un forte interesse per la tematica della migrazione forzata che ho deciso di approfondire inserendola nel contesto più ampio della protezione dei diritti umani facendo un Master in Diritti Umani.

Ho scelto di lavorare nell’ambito sociale perché ho bisogno di sentirmi utile e di dare il mio contributo per migliorare la società in cui viviamo.

Per questo anno, presto Servizio presso il Centro SPRAR (Servizio di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati) di Caronno Pertusella insieme a Veronica. Al Centro, ci occupiamo di insegnare italiano e di seguire bambini/ragazzi nel doposcuola. Oltre a questo, cerchiamo di affiancare l’equipe nel lavoro di gestione delle famiglie ospitate.

Nonostante siano solo trascorsi pochi mesi dall’inizio di questa avventura, penso che sia e sarà fino alla fine una anno di  duro lavoro, ma estremamente arricchente.

Semplicemente...Alessandra.

Kajiado District, Kenya, 2012

Sono Alessandra Deriard,
ho 26 anni e sono originaria della provincia di Pavia.
Dopo una Laurea Magistrale in Cooperazione allo Sviluppo e dopo aver collaborato e vissuto negli ultimi quattro anni con alcune splendide tribù in Tanzania ed in Kenya, quest'anno svolgo il Servizio Civile presso il Servizio Accoglienza Immigrati di Caritas a Milano… 

ma dall’Africa, in realtà, io non sono mai tornata.
Amante dei Popoli, della Natura, dei Sorrisi, degli Abbracci, del Sole e della Vita.


OSSERVARE LA VITA

Ciao a tutti!

Chi sono?
Non lo so...
Fino ad ora sono un ragazzo che è cresciuto in oratorio, da anni ho svolto il servizio di educatore per i ragazzi della mia parrocchia.
Ho concluso il mio percorso di studi in architettura cercando di inserirmi nel mondo del lavoro, però col passare del tempo è cresciuto parallelamente in me il desiderio di prendere un periodo della mia vita e dedicarlo al volontariato.
Questo bisogno si è formato da un percorso spirituale e personale, facendo varie esperienze di volontariato e conoscendo persone attive sotto questo punto di vista.
Non è una scelta fatta dall'oggi al domani, è un continuo crescere del mio interesse nell'apertura verso l’altro, nel mettermi in gioco, nel far evolvere in me qualcosa di nuovo, e che ora vuole sfociare in un periodo dedicato al servizio.

Questa scelta vuole essere per me motivo di crescita e sicuramente un altro passo importante per la mia vita, vorrei poter dare risposte a me stesso, orientando la mia vita verso una direzione di carità e servizio.
Sono un ragazzo semplice che ha tanta voglia di mettersi in gioco, ha fame di esperienze e vuole poter ricercare, esprimere, e condividere il cammino intrapreso.
Anni fa probabilmente non avrei mai pensato di voler intraprendere una strada del genere, ma questo è il bello nell'aprirsi e del volere accogliere il domani come qualcosa di nuovo.



Mi piace molto la montagna, in parete a volte ci si trova in situazioni in cui non c’è nemmeno un appiglio; allora subentra la paura di staccarsi e non farcela.
In realtà un appiglio, anche se minuscolo e all'apparenza insignificante, c’è sempre e sta a noi aver tranquillità e cura nel trovarlo.
Questo è un po’ il mio obbiettivo e speranza assieme, di ricercare quella tranquillità e quella consapevolezza che permette di accorgerci di quello che abbiamo sotto il nostro naso ma non siamo in grado di cogliere per la fretta o la paura di cadere.
La sensazione a volte è quella di vivere in un precario equilibrio, ma sono convinto che troverò appigli che i miei occhi fanno fatica a trovare!

Il lavoro è lungo e forse non si arriverà mai a una sentenza definitiva...ma non c'è da preoccuparsi, si impara scalando, non sulla cima!


Fabio.

Frammenti di Giulia


Classe 1990. Laureata in Scienze dell'Educazione con tesi riguardante voci e sguardi sull'immigrazione. 
Mi affascina il grande contenitore dell'intercultura: è un ambito labirintico, complesso e pieno di sfaccettature, da conoscere e nel quale scoprire l'altro. 
Mi piacciono molto le città, i luoghi e i non-luoghi, in particolar modo le stazioni dei treni: sono ambienti dove si incontrano vite e storie differenti. Mi sento..in via di sviluppo e in continua ricerca.

Se fossi un gatto vorrei essere un fenicottero..

Se fossi una stagione sarei la primavera. Perché l'inverno è troppo freddo, l'autunno troppo nostalgico e l'estate troppo esibizionista. La primavera, invece, è onesta con tutta quella rinascita che si porta dietro, ogni volta.

Se fossi una canzone sarei Il mare d'inverno cantata da Loredana Bertè, per quella nostalgia con cui parla di sé.

Se fossi un filosofo sarei Socrate, perché l'avrei sposato dato che rappresenta il mio uomo ideale. Ma sarei anche Nietzsche che, a distanza di secoli arriverà a criticare pesantemente Socrate.
Sarei entrambi perché è giusto sapersi criticare, anche a distanza di anni. Ma sarei entrambi anche perchè vedo in Socrate quello spirito dionisiaco di cui Nietzsche ha sempre parlato e secondo cui non ha mai vissuto. Sarei entrambi, quindi, perché le idee è bello poterle vivere.

Se fossi un libro sarei Due di Iréne Némirovsky per quel modo così profondo con cui parla dell'essere giovani e dell'essere giovani alle prese con l'amore.

Se fossi uno Stato, sarei l'antica Grecia, per tutte quelle cariatidi che adornavano i suoi templi. Le ho sempre invidiate per quel loro modo così fiero che hanno di starsene a contemplare dall'alto di una collina il mondo muoversi freneticamente e cambiare di giorno in giorno.

Se fossi uno stato d'animo sarei il 'dor' rumeno che non ha vera traduzione e che è un misto di nostalgia per ciò che si lascia e gioia per il nuovo che sicuramente verrà.

Se fossi una pettinatura sarei uno chignon, ma non di quelli perfetti delle ballerine in cui i capelli sono costretti con forcine e mollette a stare tutti in ordine 'appiccicati' alla testa; no, sarei uno di quegli chignon morbidi, che lasciano ai capelli la possibilità di scendere leggeri sulle spalle appena si inizia a correre.

Se fossi una bevanda sarei il tè bianco, perché lo si ottiene con la lavorazione più semplice che ci sia.



Se fossi un tipo di scarpe sarei un paio di espadrillas, perché sono basse, comode, ma mai scontate o prevedibili. 

Se fossi un animale sarei un gatto; bravissima a fare le fusa quando ho voglia io, ma (ahimè) brava anche a graffiare quando qualcuno è di troppo. Ma se fossi un gatto, vorrei essere un fenicottero perché è alto, magro e rosa. E se fossi un fenicottero, probabilmente, vorrei essere un canguro, per quello spazio con cui può portare in giro i suoi piccoli tenendoli al caldo di un contatto costante.

In realtà, sono Irene e dentro Irene ci sono un po' tutte queste cose. Così, semplicemente, ho parlato un po' di me senza dire esattamente qualcosa su di me; perché in fondo sono e sarò sempre una timida alle prese con la 'slealtà' delle sue guance rosse.. 

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo




Mi chiamo Alice. Svolgo il servizio civile presso il Servizio Accoglienza Immigrati, con scarsa vocazione ma tanto impegno e passione. Ho studiato mediazione linguistica e culturale e ho lavorato in un supermercato. Ho avuto la fortuna di viaggiare nel mondo arabo e di abitare in Egitto e in Siria, dove c’è metà della mia anima. L’altra metà è nella periferia milanese, dove sono nata e cresciuta. 

Lezione numero 1: "Io Mi Presento"



Ciao!
“Io mi presento”: sembra facile quando si tratta della prima lezione del corso di italiano, ma quando ti trovi davanti una pagina bianca, capisci che non è proprio così…
Vediamo, cosa potrei dire?
Anna, 27 anni, città natale Besana Brianza (a metà strada fra Monza e Lecco, è quello che aggiungo sempre quando vedo spuntare il punto interrogativo negli occhi dell’interlocutore), una laurea specialistica in Mediazione Linguistica e Culturale, una passione per i dolci (da fare e da mangiare) e “arruolata” nel Servizio Civile Nazionale a Spazio Mondialità, il servizio della cooperativa La Grande Casa che segue il progetto SPRAR di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo.

Come inizio potrebbe anche bastare, a presto!

Io, me e Stefàno

Buongiorno a tutti.. mi presento, sono Stefano o come direbbero i ragazzi di casa Abramo: Stìf, Stifàno, Steve o l’odiatissimo Stefàno… ma potete chiamarmi Ste.

Vivo da 27 anni a nella ridente Lecco (luogo dove presto servizio..) dove la città diventa quasi montagna: l’orgogliosissimo quartiere di Bonacina.

La cosa che principalmente mi caratterizza è lo smisurato amore per la musica;  faccio parte ormai da quasi 10 anni di un gruppo rap a nome NDP CREW (eccola la marchetta..), inoltre mi piace anche l’arte (in particolare la street art) e la vita all’aria aperta.. che altro dire?? Per maggiori informazioni mi trovate in struttura da lunedì a sabato, dove sarò intento o a costruire casette o a stare con i mitici e inimitabili utenti e operatori di CASA ABRAMO!


Live on Stage

Io, Linda.

Ciao Blog,

sono Linda, una volontaria del Servizio Civile Nazionale. Ogni tanto scriverò qualcosa, anche se non sarà facile perché non sono abituata a scrivere su me stessa.

Tanto per cominciare mi presento: vengo da Lecco, una piccola città circondata dai monti e dal lago, ho 26 anni e l'anno scorso mi sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all'università di Milano. Durante i fine settimana lavoro come barista e cameriera presso un Circolo Cooperativo, dove faccio anche parte di due collettivi, con i quali organizzo eventi culturali e musicali. Inoltre, insegno privatamente l'inglese a due ragazze, una volta a settimana l'una. Come avrai intuito, non mi piace stare con le mani in mano!!!


Svolgo il SCN presso Casa Abramo, una comunità socio-educativa che ospita 15 adulti in condizioni di disagio sociale o di asilo politico. Con loro svolgo attività di ogni genere, dall'aiuto nelle mansioni quotidiane come la cucina e la lavanderia agli accompagnamenti dal dottore o per le questioni burocratiche più diverse.

Sono una persona a cui piace stare in compagnia, fare progetti e condividerli con gli altri, che siano gli amici, gli ospiti della comunità, i membri dell'equipe educativa, i colleghi del circolo...ogni volta che mi viene un'idea provo a comunicarla per rendere partecipi tutti.

Ho deciso di intraprendere quest'avventura dopo l'università per entrare nel mondo dell'assistenza agli stranieri, soprattutto coloro che sono costretti a scappare da Paesi in condizioni di estrema violenza e precarietà. Vorrei poter imparare ad aiutarli nel miglior modo possibile, anche se lo sforzo e il risultato a volte non sono proporzionati. Sono felice di questa prova perché ho scoperto di poter imparare tanto e di avere molta più forza di ascoltare le loro richieste di quanto immaginassi.

Eccomi qui, questa sono io. Spero di poterti raccontare qualcosa di interessante in futuro!



Somebody that you(’ll get) used to know

Elena è nata 27 anni fa a Siracusa, poi è cresciuta un po’ a Padova e molto a Bergamo, ha quindi studiato a Venezia (e per qualche mese a Tokyo) e adesso vive a Milano. Ha studiato lingue orientali – il giapponese, in particolare, che non sa parlare ma solo ascoltare – e poi ha deciso di voler insegnare la lingua italiana – sua vera grande passione sin da piccolissima – agli stranieri.  Elena dice sempre che è l’ultimo esame che fa, e poi va sempre a cercarsi qualcosa di nuovo da studiare – che, senza, non ci sa stare. Elena abita al Sesto Piano di un condominio vicino alla Bovisa e sul suo terrazzino troverete 1 stoica primula, 1 grandissimo papiro parigino, 3 tulipani neri ancora dormienti, 1 pomodoro vecchio e 4 pomodori baby che si sono appena uniti alla famiglia. A Elena, oltre che studiare, piace anche parlare, cucinare e mangiare (soprattutto le verdure), vestirsi colorata e viaggiare – e le piace fare sempre tutto in compagnia.

Un pò di me


Ciao a tutti!
Io sono Veronica, ho 24 anni e vivo a Cormano.
Sono laureata in Servizio Sociale e sono abilitata ad esercitare la professione di assistente sociale.
Come si può dedurre anche dal mio percorso di studi, mi piace lavorare nel sociale perché si entra in contatto con molte persone differenti: non ci si annoia di certo e gli imprevisti sono all’ordine del giorno!
Castello di Duino (TS)

Tra le cose che amo di più fare c’è la lettura di un bel libro, un’ uscita con gli amici e, soprattutto, adoro spupazzare la mia morbida cagnolina Angie!
Mi piace moltissimo viaggiare: trovo interessante partire alla scoperta di  posti nuovi  per  apprezzarne i paesaggi, i patrimoni artistici e per fare nuove esperienze culinarie.

Ora sto prestando il mio Servizio presso il Centro SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati politici) di Caronno Pertusella con la mia compagna di avventura Manou.
Al Centro facciamo svariate attività: lezioni di italiano, doposcuola per i bambini, laboratori ricreativi, accompagnamenti sanitari sul territorio e molto altro.
 Ma soprattutto stiamo imparando a conoscere nuove figure professionali, a sperimentare noi stesse ed a confrontarci con persone di diverse etnie e con opinioni molto distanti dalle nostre!
Insomma  un duro lavoro quotidiano ma, devo ammetterlo, alla fine anche molto soddisfacente.