Da un semplice libro al primo anno di università, è nata la curiosità per l’altro, portatore di diversità che può spaventare e nello stesso tempo può attrarre. E’ un testo che mi piace condividere con chi incontro perché narra una vicenda molto comune e che può essere letta e accolta da grandi e piccoli.
Il protagonista si chiama Enaiatollah Akbari, oggi un ragazzo torinese.
Conosce un giornalista, Fabio Geda, il quale gli chiede di raccontare la sua storia."Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari" rappresenta una totale apertura di sè che il giovane regala non solo al giornalista Geda ma a tutti i lettori. Enaiatollah inizia con il racconto della mattina quando all'età di dieci anni circa si ritrova da solo in Pakistan dove era stato portato, tra mille difficoltà, dalla madre. Il padre era stato derubato e ucciso da dei banditi e la cosa aveva provocato nei pashtun, i proprietari delle merci che gli erano state rubate, un desiderio di vendetta o meglio di risarcimento per il danno subito: prendere come schiavo un figlio di quell'uomo era un buon risarcimento.
L'etnia hazara è quella a cui appartiene Enaiatollah, disprezzata sia dai talebani che dai pashtun. Solo portandolo fuori dall'Afghanistan, sua madre avrebbe evitato quella fine a suo figlio. Insieme viaggiano per il Pakistan e, dopo una notte insieme, al mattino la madre di Enaiatollah scompare.
La sera prima dell'abbandono, la donna aveva consegnato al figlio tre insegnamenti per la vita:
"Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat, per nessun motivo. La prima è usare droghe. [...] Promesso. La seconda è usare le armi. Anche se qualcuno farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, insultando Dio, la terra, gli uomini, promettimi che la tua mano non si stringerà mai attorno ad una pistola, a un coltello [...] Promesso. La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno, Enaiat, vero? Sarai ospitale e tollerante con tutti. Promettimi che lo farai. Promesso."
Queste regole, Enaiatollah le rispetterà. Dopo il Pakistan, il giovane raggiunge l'Iran, dove lo aspetta un pesante lavoro in cantiere. Qui inizia a stringere le prime amicizie, inizia la sua vita lavorativa che nello stesso tempo lo incatena al cantiere dal quale non poteva uscire per evitare il rischio di un incontro con la polizia. Per Enaiatollah, i soggiorni in Iran non sono stati molto lunghi: due volte è stato riportato ad Herat, in Afghanistan, vicino al confine iraniano.
"Come si fa a cambiare vita così, Enaiat? Una mattina, un saluto. Lo si fa e basta, Fabio.
Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
E' così. E la speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento.
Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura di sempre."
Dall'Iran, Enaiat si sposta in Turchia con l'aiuto dei trafficanti di uomini, viaggio difficoltoso, fatto da camminate interminabili, da spostamenti in camion, dove bambini e adulti si nascondono nel doppio fondo del veicolo.
"Sentivo il peso delle pietre sulla nuca e sul collo, il peso dell'aria e della notte sulle pietre, il peso del cielo e delle stelle. Ho cominciato a respirare con il naso, ma respiravo polvere. Ho cominciato a respirare con la bocca, ma avevo male al petto.
Avrei voluto respirare con le orecchie o con i capelli, come le piante, che raccolgono l'umidità in aria, dall'aria. Ma non ero una pianta, non c'era ossigeno."
In Turchia, il giovane e i suoi compagni di viaggio non possono fermarsi, non c'è lavoro. Un'altra avventura, questa volta via mare, li aspetta, quella in Grecia.
Durante quel viaggio, i giovani perdono un compagno, Liaquat. All'arrivo, i giovani vengono arrestati dalla polizia. Trascinati in caserma, dopo urla e pianti, i giovani sono lasciati liberi.
Enaiat dalle mappe dei poliziotti individua il luogo dove si trovano: quasi a Mitilene.
Liberi ma senza documenti, ancora clandestini. I ragazzi vogliono trovare un passaggio per arrivare alla città, per poi imbarcarsi per Atene. Enaiat si oppone, dicendo che avrebbero incontrato di nuovo la polizia e che li avrebbe portati via. Si allontana dal gruppo, lì vicino c'è una pompa di benzina con una cabina telefonica e il ragazzino entra nella cabina per osservare la situazione.
Poco dopo arriva la polizia: Enaiat non fa in tempo ad uscire ed avvisare i suoi compagni di viaggio che vengono portati via.
Accertatosi che non ci fosse la polizia, il giovane esce e corre, fino ad arrivare ad un cortile che costeggia una casa. Forse per la stanchezza, Enait si addormenta.
Arriva una donna anziana a svegliarlo che abita lì. Si prende cura di lui, lo accompagna alla stazione del pullman, gli fa il biglietto, gli dà dei soldi. Il giovane riesce ad arrivare a Mitilene.
Compra il biglietto per il traghetto e s'imbarca per Atene: durante questo viaggio incontra Jamal, un ragazzo che aveva conosciuto in Iran.
“Mescolarsi nella folla non è male, quando non sai cosa fare. E nella folla abbiamo sentito parlare afghano. Seguendo la lingua siamo finiti in mezzo a un gruppetto di ragazzini, più o meno della nostra età, alcuni anche più grandi: giocavano a calcio.
Ecco un buon consiglio: se nella vita ti capita di passare del tempo come clandestino, cerca i parchi, si trova sempre qualcosa di buono, nei parchi.”
E' l'estate del 2004 perchè ad Atene, Enaiat e Jamal s'imbattono nelle Olimpiadi: c'è molto lavoro nero e ci sono molti complessi sportivi da terminare. Cominciate le Olimpiadi, il lavoro finisce.
Enaiat vuole partire e lascia il suo amico. Raggiunge Corinto, una sera riesce a nascondersi su una nave.
Per tre giorni, senza bere né mangiare, rimane nascosto nella pancia della barca.
Enaiat non sa dove sia diretto il mezzo. Quando si ferma al porto e dopo varie peripezie, esce dalla nave, viene visto da qualcuno ma non inseguito.
Scappa. Il primo cartello stradale che incontra ha la scritta “Venezia”. Qui inizia un ulteriore viaggio in Italia alla ricerca di suoi conoscenti. Il giovane vuole recarsi a Roma, non sapendo la distanza da una città all'altra.
“Come si trova un posto per crescere, Enaiat? Come lo si distingue da un altro?
Lo riconosci perchè non ti viene voglia di andare via. Certo, non perchè sia perfetto.
Non esistono posti perfetti. Ma esistono posti dove, per lo meno, nessuno cerca di farti del male.”
Riesce a rintracciare un suo amico, Payam che di primo acchito non crede sia il vero Enaiat al telefono e soprattutto in Italia. Payam dice al giovane di andare a Torino. Da Roma, dove il giovane si era recato e dove sul treno aveva conosciuto un signore gentile, Enait decide di andare a Torino.
Per acquistare il biglietto si fa aiutare da un afghano e sul treno incontra una signora molto gentile che chiama addirittura Payam per farlo venire a prendere alla stazione.
L'amico porta Enaiat all'Ufficio minori per stranieri.
“Ho pensato a quelle due persone, il ragazzo di Venezia e la signora del treno per Torino, che mi erano piaciute tantissimo, entrambe, tanto da desiderare di abitare nello stesso Paese in cui abitavano loro. Se tutti gli italiani sono così, ho pensato, mi sa che questo è un posto in cui potrei anche fermarmi. Ero stanco, a dire il vero. Stanco di essere sempre in viaggio.”
Payam lo porta a stare da un amico ma dopo pochi giorni, l'uomo non vuole più ospitarlo per la paura di avere contatti con la polizia e magari perdere i documenti. Così Payam chiama i Servizi Sociali del Comune, parla con una donna che lo aiuta, Danila.
Non c'è un posto disponibile per Enaiat, così Danila lo prende con sé. Il giovane non vuole, Payam insiste e alla fine il ragazzo cede. Incontra la famiglia che lo accoglie.
“L'unico problema era la lingua, ma quando ho capito che a Danila e Marco faceva piacere sentirmi raccontare la mia storia, ecco che ho cominciato a parlare e a parlare e a parlare, in inglese e in afghano, con la bocca e con le mani, con gli occhi e con gli oggetti. Capiscono o non capiscono? Mi chiedevo. Pazienza, era la risposta. Io parlavo.”
Fino al giorno in cui non si è liberato un posto in comunità.
Dopo poco tempo Danila chiede ad Enaiatollah se vuole stare da loro, in affido.
Scuola, lingua, amicizie, famiglia: il giovane inizia la sua seconda vita, non dimenticandosi della sua famiglia d'origine.
La fine del testo è un nuovo inizio per il giovane: Enaiat riesce a fare una telefonata alla madre in Afghanistan.
"In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch'io. Non so bene come. Ma lo ero anch'io.”
Tramite le sue parole si ha modo di entrare in relazione con una sfera altra che nel quotidiano ci dimentichiamo di avere.
Enaiat racconta dieci anni della sua esistenza, in cui ha conosciuto la sofferenza ma anche la gioia di sapersi arrivato.
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