Se dovessi spiegare a qualcuno che cosa significa lavorare in un centro di seconda accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo potrei farlo in molti modi.
Potrei dire, banalmente, che la struttura dove faccio servizio ha una ventina di posti letto, perciò una ventina di ragazzi ospiti per un massimo di dieci mesi ciascuno.
Potrei parlare delle lezioni di lingua italiana, che la mia collega di servizio civile Elena coordina e io aiuto a fare. I ragazzi sono divisi in piccoli gruppi in base al livello linguistico, e ogni giorno per qualche ora facciamo del nostro meglio per prepararli, chi per l’esame di alfabetizzazione, chi per l’esame di terza media.
Potrei descrivere l’iter per l’ottenimento dei documenti, dai permessi di soggiorno ai titoli di viaggio, dai certificati di codice fiscale alle carte di identità: spesso una vera e propria odissea tra ritardi di alcuni rami della pubblica amministrazione, ottusità di certa burocrazia, inimmaginabili imprevisti o anche soltanto banali errori.
Potrei parlare della vita comunitaria, che preferisco chiamare “comune quotidianità”, fatta di qualche chiacchiera con Efrem mentre si beve un caffè, del relax sulla provvidenziale amaca in giardino alla fine della giornata con l’immancabile Kayani, dei pranzi tutti insieme in mensa e delle partite a calcio balilla del dopo pranzo (di cui, ahimè, posso solo essere spettatrice, date le mie scarse doti per qualunque tipo di sport – compresi quelli da tavolo!!!).
Potrei riferire di alcuni momenti divertenti, dagli scherzi “drammatici” di Sassi il primo aprile, a certe buffissime storpiature dell’italiano di Mekhail (ma non solo), da Iqbal che mi cucina (e insegna a cucinare) degli ottimi pakora pakistani alle foto da “album di famiglia” con Ali.
Potrei parlare perfino dei momenti difficili, che non sono pochi e sono difficili nel vero senso della parola: le ansie legate ai documenti – incredibili, per noi che magari neanche ci accorgiamo di avere la carta di identità scaduta! -, la profonda amarezza per la mancanza di lavoro e conseguentemente di soldi da mandare alla famiglia di origine dopo anni di assenza, la depressione per l’ennesima giornata vuota in attesa che la Commissione Territoriale si esprima sulla richiesta d’asilo, i racconti di passati davvero troppo tragici per noi nati nella parte “giusta” del mondo.
Non so se quanto detto fin qui renda l’idea di cosa voglia davvero dire lavorare in un centro di accoglienza.
Allora provo a spiegarlo così: lavorare in un centro di accoglienza significa svolgere le proprie attività con una logica esattamente contraria a quella cui siamo abituati. La società ci spinge a rivolgere la nostra attenzione ai soldi, ai beni materiali, all’apparenza e al successo, a preferire la compagnia del ricco a quella del povero, a frequentare i posti “giusti” con la gente “giusta”. Al contrario, il nostro lavoro ci spinge a considerare prima di tutto chi ha maggiori difficoltà, ad avere più cura per chi è più ai margini, a scegliere chi è più debole. Insomma, a ribaltare la scala dei valori su cui basare le nostre scelte di vita. Ecco, qualche secolo fa qualcuno disse “gli ultimi saranno i primi”. Beh, in definitiva è questo il concetto da cui ogni giorno cerchiamo di farci ispirare.
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